Kigali, Ruanda, ottobre 2005. Di Elena Spoerl
Sono appena rientrata dal Ruanda dove ho seguito le gacaca, i processi popolari con i quali il paese sta giudicando gli autori del genocidio. Ho raccolto la testimonianza di un ragazzo rimasto orfano. Si è espresso in italiano perché nell’aprile del 1994, subito dopo il massacro, è stato trasportato in Italia assieme a un centinaio di altri bambini feriti e vi è rimasto per alcuni anni prima di rientrare nel suo paese. Oggi abita in uno dei foyer di Insieme per la Pace (un’associazione umanitaria che da un decennio opera sul territorio) alla periferia di Kigali. Durante il racconto, al quale hanno assistito i bambini e i ragazzi del foyer – tutti in rispettoso silenzio malgado la maggioranza non lo potesse capire – Védaste si è più volte commosso, ma ha tenuto duro fino in fondo senza cedimenti. Solo la voce a tratti gli è mancata. Trascrivo la registrazione senza aggiungere nulla.
Mi chiamo Védaste e ho 20 anni.
Com’era composta la tua famiglia prima del genocidio?
Eravamo otto figli, i miei genitori e mio nonno, che abitava vicino. Nel ’94 tutta la famiglia è stata uccisa.
Sei l’unico sopravvissuto?
Sì.
Com’è successo?
Il 7 aprile, il giorno che hanno sparato all’aereo del presidente, noi volevamo scappare in una chiesa, pensando che lì eravamo al sicuro. La nostra famiglia era conosciuta e quindi altri hanno voluto accompagnarci. La notte dell’8 abbiamo voluto raggiungere la chiesa, ma siamo stati fermati lungo il tragitto da un gruppo che voleva ucciderci. Conoscevano mio padre e così nessuno di noi è riuscito ad attraversare la strada. Siamo rimasti nascosti per giorni nei campi di banane. Il 13 aprile sono venuti per ucciderci, hanno distrutto la nostra casa e ci hanno cercato nei campi. Io ero con mio papà, mi portava sempre con lui, con mia madre c’era la mia sorella più piccola. Quel giorno sono stati uccisi tutti, salvo mio padre ed io. Noi due siamo riusciti ad attraversare la strada principale per raggiungere la chiesa dove volevamo rifugiarci. La chiesa era assediata da giorni, ma fino a quel momento gli occupanti erano riusciti a difenderla. Erano in molti a difenderla fuori, armati solo con arco e frecce, ma ormai non avevano più la forza di combattere contro i fucili. Proprio il 13 i soldati stavano preparando un attacco. Alle 11 del mattino abbiamo visto i soldati sulle colline pronti ad uccidere, insieme a molte altre persone con i macete e altre armi tradizionali. Gli uomini fuori dalla chiesa non avevano armi adatte. Noi piccoli, le donne e gli anziani eravamo chiusi nella chiesa, e gli uomini, tra cui mio padre, erano fuori a combattere, ma non riuscivano a difenderci, anche se erano pronti. Alla fine una parte è stata uccisa e una parte è scappata. Allora i soldati hanno sparato an che in chiesa e tirato le granate. Anch’io sono stato ferito, alla gamba. Ero a terra in mezzo ai cadaveri. Non sapevo, quella notte, che mio padre era ancora vivo. Un vicino mi ha portato fuori perché potessi nascondermi tra le piante di sorgo. Quando mi sono svegliato qualcuno mi ha detto che mio padre era ancora vivo, che l’avevano visto, e poi ci siamo ritrovati, sopravvissuti tutti e due. Mio padre e gli altri superstiti avevano organizzato una fuga. Potevamo scappare, o in Uganda o in Tanzania, dove c’erano soldati in grado salvarci. Tutta la notte abbiamo camminato…
Come potevi con la gamba ferita?
Mi portava mio padre sulle spalle, sempre. Abbiamo camminato lungo le piste, ma al mattino, non sapendo dove fossimo, gli uomini hanno preso la strada asfaltata e alla abbiamo incontrato la barriera dei soldati (il paese era disseminato di posti di blocco, n.d.r.). Ci hanno fermato, eravamo in 48, i soldati erano armati ma erano solo in due. Volevano ucciderci ma eravamo in troppi. Allora hanno detto che ci avrebbero portato in un rifugio. In realtà uno è andato a chiamare rinforzi, l’altro è rimasto. Quando sono tornati erano in tanti, allora ognuno di noi è scappato. Mio padre non poteva più fuggire con me sulle spalle, io sono riuscito a rifugiarmi in una casa vicina, con due bambine e due uomini. Mi hanno nascosto in cucina. Quando i soldati sono tornati per controllare, ho chiesto se non potevano ‘scusarci’ (‘ho chiesto pietà’, n.d.r.) ma un soldato mi ha dato un pugno nel cuore. Hanno ucciso i due uomini davanti a noi, ma a noi tre piccoli ci hanno lasciato perdere. Il capo ha detto «non possono più fare niente, lasciateli stare». Siamo scappati ancora, siamo arrivati a un caseggiato che fortunatamente era un ospedale. Si sono occupati della mia gamba e dopo tre giorni sono arrivati i soccorsi, i soldati del fronte, e c’era Gabriella.
(Gabriella Caldelari accompagnò Mariapia Fanfani già durante la prima spedizione di soccorso).
Insomma, eri in salvo. E poi, cosa è accaduto?
Poi Gabriella e gli altri ci hanno portato in Italia per farci curare. Sono stato all’Ospedale sant’Eugenio a Roma per 5 mesi e dopo a Vercelli in una comunità.
La gamba, hai potuto riprendere ad usarla?
La gamba era bruciata, ricordo che la ferita faceva paura anche a chi mi curava. Ma sono guarito, poi ci hanno portato al centro di Vercelli, dove siamo rimasti per due anni e mezzo e abbiamo potuto studiare. Ho fatto la prima media, avevo dieci anni.
E come sei tornato in Ruanda?
Chi aveva familiari poteva tornare. C’era una mia sorella grande, sposata, che già durante la guerra abitava fuori dal paese. Lei non è stata uccisa. Avevo molta nostalgia e così ho chiesto di tornare per vivere con lei. Ma dopo un anno lei è morta, di malattia. Aveva una bimba, Tabia, che aveva allora due anni. E’ stata fortunata, Tabia, ha potuto rimanere dalla seconda moglie del marito di mia sorella, che era mussulmano, e che la teneva volentieri. Io invece sono stato collocato in una famiglia, ma mi trattavano male. Quando ho saputo che Gabriella era di nuovo in Ruanda, l’ho cercata e le ho chiesto di aiutarmi. Mi ha portato qui. Da allora le cose sono andate bene, ho potuto continuare gli studi. Ho raccontato della mia nipotina a Gabriella, che ha detto «andiamo a trovarla». Ho chiesto se potevo tenerla con me. Gabriella ha detto di sì e anche la madrina dopo un po’ ha acconsentito. Tabia aveva allora 3 anni, è l’unica sopravvisuta della mia famiglia.
Tra poco terminerai le secondarie. Cosa vuoi studiare, se passi gli esami?
Medicina. Voglio poter curare gli altri come sono stato curato io.
Mi hai detto ieri alla gacaca che perdoni chi confessa di aver ucciso durante il genocidio.
Sì, sono pronto a perdonare perché è passato, finito. Anche se non perdonassi, la mia famiglia non può tornare in vita, non c’è più. Ma se chi ha ucciso ha il cuore di chiedere perdono, sono pronto a farlo.
Ora Vedaste è in Ticno per una formazione teorica nei laboratori dell’Ente Ospedaliero Cantonale e vi rimarrà fina a metà gennaio 2010. Al suo rientro in Ruanda inizierà l’ultimo anno di università a Kigali, sezione laboratorio. Il suo desiderio è di riuscire a trovare uno sponsor per andare all’estero ( Francia o Stati Uniti) per fare il Master.
A kigali oltre a frequentare l’università, è responsabile di una nostra casa famiglia dove vivono serenamente 17 ragazzi della varie etnie.
La trasmissione della Radiotelevisione svizzera STORIE ha dedicato a Vedaste il seguente documentario:
http://www.youtube.com/watch?v=O0pTUQiNAvg
29 maggio 2013.
Vedaste è ormai da due anni che ha terminato l’università e oltre ad aver trovato lavoro al laboratorio dell’ospedale ospedale della Polizia a Kigali ha pure conosciuto la bellissima Colombe e con lei sta programmando il suo futuro:
– sta costruendo la sua casa nella parcella dove abitava con la sua famiglia prima dei terribili avvenimenti che hanno sconvolto il Ruanda nel 1994
– il 12 ottobre 2013 si sposerà e lascerà la nostra casa famiglia.
AUGURI CARI CARO VEDASTE E GRAZIE PER AVERCI AIUTATO CON TANTO AMORE AD OCCUPARTI DEL NOSTRO FOYER