Vedaste testimonianza

MI CHIAMO VEDASTE

Mi chiamo Mutsindashyaka Vedaste, ho 29 anni e sono nato sulla collina di Muyumbu, ex comune di Bicumbi, che adesso è chiamato Rwamagana. Il genocidio del 1994 contro i Tutsi l’ho vissuto su questa collina, dove hanno massacrato tutta la famiglia, composta da quattro fratelli, quattro sorelle, mio padre e mia madre oltre a mio nonno, che ho avuto la fortuna di conoscere nonostante avesse raggiunto l’età di 100 anni.
Siamo sopravvissuti solo io e mia sorella maggiore Claudette, che era sposata e viveva fuori dal nostro villaggio. Tutto ciò che successe durante il genocidio e come sono sopravvissuto è una lunga storia.
Oggi sono passati 20 anni dal genocidio. Nel paese sta girando la flambeau (fiaccola) simbolo della luce e della speranza, per la commemorazione del genocidio che aveva fatto cadere nelle tenebre tutto il Rwanda.
È un momento storico per il nostro paese ed è un momento di riflessione per chiunque abbia vissuto questo terribile genocidio: oggi possiamo vedere i progressi fatti dalla nostra nazione ma anche il percorso personale intrapreso da ciascuno di noi.
Io nel 1994 avevo solo 10 anni. Durante il genocidio è stata massacrata la mia famiglia e io stesso sono stato ferito a una gamba, colpito da una granata.
La mia luce di speranza fu l’arrivo del FPR (Fronte Patriotico Rwandese) e l’incontro con Maria Pia Fanfani dall’Italia e Gabriella Caldelari dal Ticino (Svizzera), che soccorrevano i bambini gravemente feriti. Così io ed altri cento bambini, fummo portati per le cure mediche in diversi ospedali italiani. Io ero nell’Ospedale “Santo Eugenio” di Roma, dove la squadra dei medici fece un grande lavoro per salvarmi, perchè senza di loro sarei stato amputato della mia gamba destra.
La tristezza nel mio cuore è di non avere l’indirizzo di nessun di loro per poterli ringraziare, ma Dio Onnipotente benedice ciascuno di essi che, oltre a curarmi, hanno ispirato la mia carriera di medico, che oggi è diventata la mia professione.
Dopo la guarigione, sono stato trasferito nel Nord dell’Italia, vicino a Torino, precisamente nella città di Vercelli, dove ho frequentato le scuole, ho fatto la quinta elementare con le care docenti Rosalda e Silvana che, a tutt’oggi, sono sempre mie amiche.
Nella stessa scuola ho conosciuto Mariuccia che si offriva volontaria per aiutarci con i compiti al centro dove vivevamo.
La ringrazio per aver permesso al figlio Simone di essere il mio padrino di Battesimo, quando non avevo nessuno che lo potesse fare.
Nel 1997 ricevetti una bella notizia: mia sorella, della quale avevo perso le tracce, era ancora viva. Chiunque avesse avuto un parente in Rwanda era obbligato a rientrare nel paese, così, con dodici ragazzi, accompagnati da una volontaria della Croce Rossa Italiana, venimmo accolti all’aereoporto di Kigali dalle autorità del Governo Rwandese. Un furgone ci condusse al Centro Memorial di Gisimba, un’orfanotrofio della capitale.
Ogni mattina arrivava una macchina dell’OIM che si premurava di riportare ciascuno di noi nella sua famiglia. Alcuni dei ragazzi erano disabili, quindi li aiutavo a trasportare i bagagli in macchina e auguravo buon viaggio a ciascuno di loro. Alcuni venivano portati nel Bugesera, Byumba e Kibungo, nelle diverse regioni del Rwanda.
Al terzo giorno fu il mio turno. I ragazzi dell’orfanotrofio piangevano perché ci eravamo affezionati molto. Ad alcuni avevo regalato un capello o un vestito tra i tanti che avevo portato dall’Italia. Volevano che io rimanessi con loro, ma dissi che avevo mia sorella ad aspettarmi e che sarei andato a vivere con lei. Ci scambiammo un ultimo abbraccio con le lacrime agli occhi e partii. Accompagnato da una volontaria della Croce Rossa Italiana, nel pomeriggio raggiungemmo il villaggio dove abitava mia sorella Claudette, in una piccola casa lasciatale ad uso gratuito.
Ci salutammo con un abbraccio di gioia e tristezza. Eravamo gli unici sopravvissuti di una famiglia di otto figli.
Questa scena se la ricorderà la volontaria della Croce Rossa, che ci vide piangere senza dire nessuna parola per trenta minuti. Ci preparò i documenti che compilammo come certificazione del nostro ricongiungimento.
Passammo tutta la notte a raccontarci cosa successe durante il Genocidio: Claudette voleva sapere come erano stati uccisi i nostri genitori e i nostri fratelli. Lei era la figlia maggiore e io il settimo di otto fratelli.
Toccò a lei raccontare la sua storia; mi presentò le sue due figlie: Tabia, nata in pieno Genocidio nel 1994, che aveva ormai tre anni, e Fiona che aveva non più di due mesi.
Vivevamo tutti quanti insieme una vita semplice, fatta di povertà ma piena di gioia.
Ogni mattina Claudette partiva per coltivare il terreno dei nostri genitori, io mi occupavo di portare l’acqua e la legna per il fuoco. Era una vita faticosa e triste perché avevamo tutti due ancora ferite nel cuore. La vita di povertà che facevamo era il modo per onorare la nostra famiglia.
I bei momenti non durano un’eternità. Dopo un anno solo, Claudette se ne andó. Morì il primo novembre 1998, festa di Ogni Santi. Così lei partì per riabbracciare gli altri Santi della nostra famiglia, massacrati, innocenti.
Il 2 novembre 1998, accompagnato da amici di famiglia e dai vicini di casa, seppellimmo mia sorella nei terreni della nostra famiglia. Io le lasciai un messaggio per i miei genitori e fratelli. Spero che Claudette abbia detto loro che ero vivo e che ero cresciuto, avevo quattordici anni e non più dieci.
Una nuova famiglia si prese cura delle mie due nipotine Tabia e Fiona.
Io iniziai un’altra vita, faticosa e diversa da quella vissuta con mia sorella.

SOLO LE MONTAGNE NON SI INCONTRANO

Chi mi ha salvato nel 1994 mi salvò di nuovo.
Alla fine del 1999 incontrai un amico che mi raccontò che in Rwanda c’era una donna che aveva contribuito a portarmi in Italia per le cure mediche, e che era rimasta qui per seguire altri progetti umanitari. Era Gabriella. Io, a quel tempo, vivevo lontano dalla città, con dei miei parenti.
Raccontai loro una bugia, dicendo che a Kigali mi era arrivata una lettera e che avrei dovuto andare a ritirarla.
Ma non mi diedero il permesso di partire. Allora io decisi di andare di nascosto, senza dirlo a nessuno. Un mio conoscente aveva recuperato una mucca appartenuta ai miei genitori, io decisi di venderla tenendo i soldi per il viaggio, ma anche come scorta perché non sapevo quanto fosse durata la ricerca di Gabriella.
Dentro di me non c’era il pensiero di ritornare indietro nella famiglia in cui vivevo. Era tanto maltrattato che preferivo andare vivere in un orfanotrofio e condividere la vita con persone con le mie stesse ferite.
Il giorno dopo lavai due paia di pantaloni e due magliette, presi il mio zaino e partii come un vagabondo in ricerca di un futuro migliore, come in quella canzone dei Nomadi, “Io Vagabondo”, che tanto amavo in Italia.
Presi un bus per Kigali. Prima della morte di mia sorella eravamo stati al matrimonio di una sua amica in città. Avevo in mente la strada che portava a questa famiglia. Andai da loro, mi accolsero volentieri. E raccontai il mio piano, chiedendo un alloggio per pochi giorni. Accettarono.
Avevo solo questo numero “516105”, scritto su un foglio di carta. Era il numero di telefono del Foyer dell’associazione Insieme per la Pace. Chiamai. Mi rispose un giovane ragazzo, anche lui aveva vissuto in Italia, mi spiegò la strada. Era distante quattro kilometri. Andai a piedi. Arrivai a Remera e mi presentai a Gabriella in italiano. L’avevo trovata.
Lei mi accolse con una gioia immensa, per aver ritrovato qualcuno che aveva salvato. Credo le fosse tornato in mente tutto il periodo del Genocidio e del cammino fatto con Maria Pia. Pianse. Mi chiese di raccontarle un po’ di me e io parlai dell’Italia, del mio ritorno in Rwanda e del desiderio di stare nel Foyer.
Lei, triste, mi disse che tutti e tre i Foyer dell’associazione erano al completo, pieni di ragazzi, ma promise di aiutarmi.
Mi portò con sé su un furgone fino al Centro dei Salesiani di Don Bosco. Il prete missionario cileno Don Carlos, direttore del Centro, mi accolse.
Io iniziai un’altra vita, in orfanotrofio, ed era la vita che desideravo.
Ogni volta che Gabriella arrivava in Rwanda veniva cercarmi e mi chiedeva se mi trovassi bene e se avessi bisogno di qualcosa con lo spirito che una mamma ha per suo figlio.
Verso la fine dell’anno 2000 arrivò al Centro dei Salesiani un volontario ticinese dell’associazione, Antonio, incaricato di portarmi nel Foyer, dove, nel frattempo si era liberato un posto.
Non ricordandosi il mio nome, Antonio disse solo che veniva a prendere un ragazzo che era arrivato dall’Italia ma, proprio in quel periodo, il Centro aveva accolto un’altra persona tornata da Roma che si chiamava Gerard.
Pochi giorni dopo Gabriella chiamò al Foyer, per sentire se fossi arrivato. Rispose Gerard con il suo accento romano. Gabriella capì subito di parlare con la persona sbagliata. Gerard rimase comunque al Foyer.
Antonio tornò al Centro con il mio nome ben impresso nella memoria, Vedaste. Mi portò a Remera. In quel periodo Don Carlos era in Cile per un periodo di vacanza. Così io partì per il Foyer, ma spesso tornavo per visitare i miei amici nel Centro e Don Carlos.
Ripresi le scuole dal secondo anno di secondaria, andai bene durante tutto l’anno accademico perché ero sempre nei primi dieci in una classe con più di cinquanta allievi.
Durante le vacanze estive accompagnai Gabriella a portare le lettere dell’associazione alla posta. Durante il viaggio mi chiese di raccontarle la mia storia durante il Genocidio. Io le parlai di tutto quello che era successo e della mia vita a Bicumbi. Così decidemmo di visitare le terre della mia famiglia e la tomba di mia sorella Claudette.
L’indomani partimmo con Leon per Bicumbi, trovammo la tomba di Claudette ricoperta da erbacce. Ma, con grande sorpresa, gli alberi del confine del terreno erano stati tagliati. Chiedendo ai vicini di casa chi fosse stato, mi risposero che qualcuno intendeva appropriarsi del terreno perché era incolto.
Andammo quindi dalle autorità locali e ci accordammo in questo modo: avremmo dovuto costruire una casa nel terreno e coltivare la terra per farlo rimanere di mia proprietà.
Così, con l’aiuto dell’associazione Insieme per la Pace, in quell’anno riuscii ad avere una casa che affidai ad una famiglia povera. La nuova casa venne costruita proprio dove un tempo sorgeva la casa del mio adorato nonno.
Era l’estate del 2001. In quell’anno arrivarono dalla Svizzera Gabriella e un gruppo di volontari che trascorsero un breve periodo nella Savana, nell’est del Rwanda. Andai con i volontari a Mutara e al ritorno ci fermammo ad incontrare mia nipote Tabia, che aveva sette anni, e la portammo con noi al Foyer di Remera.
Non avevo detto a Gabriella, nonostante mi chiedesse sempre molte notizie su Claudette e Tabia, di avere un’altra nipote.
Qualche anno dopo, nel 2006, andai alla ricerca di Fiona. Avevo appena terminato le scuole secondarie.
Avevo saputo che Fiona aveva perso il padre tre anni prima e ormai erano otto anni che non la rivedevo. Lei non mi avrebbe riconosciuto, ma non potevo dimenticare le notti in cui Tabia entrava nella mia camera chiedendomi quando avremmo ritrovato sua sorella Fiona. Tabia stava crescendo velocemente. Io le promisi che l’avrei ritrovata. In quell’estate ripercorsi le tracce di Fiona, la ritrovai grazie all’aiuto di una parente che aveva ospitato entrambe le sorelle prima che venissero separate.
La portai di nascosto al Foyer.
Ma la notizia arrivò a Gabriella. Al suo ritorno in Rwanda portai di nuovo Fiona dalla donna che mi aveva aiutato a ritrovarla.
Un pomeriggio, mentre eravamo in riunione, Gabriella mi chiese se avessi qualcosa da dirle. Io risposi di no. Per tre volte. Dissi di no, nessuna nuova notizia. Infine decisi di dire tutto a Gabriella, della storia di Fiona che avevo tenuto nascosta.
Andammo subito a riprendere Fiona.

VENTI ANNI PASSATI

Nei venti anni passati ho potuto frequentare la scuola. All’età di 19 anni ho preso la responsabilità del Foyer che mi ospitava. Eravamo più di 20 ragazzi a quel tempo. Non solo mi occupavo del Foyer, ma continuavo anche con gli studi: dopo le scuole secondarie ho iniziato l’università nella facoltà di Medicina di Laboratorio, grazie alla quale, nel 2009, ho avuto l’opportunità di fare un stage all’Ente Ospedaliero del Civico, in Ticino. Tutto questo è stato possibile grazie all’associazione Insieme per la Pace, a Gabriella Caldelari e a Oriano Pagani.
Nel 2010 ho concluso i miei studi all’università con il titolo di Bachelor’s degree in Biomedical Laboratory Sciences. Rimase la voglia e la sete di fare un master.
Nel 2011 ho avuto la fortuna di ottenere un posto di lavoro presso l’Ospedale della Polizia, un ospedale fondato da Jeanette Kagame, moglie del Presidente del Rwanda, per combattere la violenza sulle donne e per occuparsi delle giovani madri e dei loro figli affetti dal virus dell’HIV.
Trovato il lavoro, il mio sogno era di costruire una mia casa nel posto dove era stata costruita la casa di mio papà. Mio padre stava costruendo una casa di mattoni ma non riuscì a terminarla.
Il suo sogno è diventato il mio compito.
Nel 2012 ho preso un piccolo prestito dalla banca e ho iniziato i lavori, con una somma che non avrebbe coperto tutta la costruzione. Ma diverse persone dell’associazione mi hanno aiutato e la casa è ora a un buon punto. Spero che un giorno riuscirò a finirla perché non perdo mai la speranza.
Avevo il desiderio di sposarmi, avevo promesso alla mia fidanzata che il nostro anno sarebbe stato il 2013. Così il 12 ottobre 2013 ho sposato l’adorabile Colombe, mia moglie per la vita. Grazie a lei oggi non mi sento più orfano.
I ragazzi che ho lasciato nel Foyer sono tutti cresciuti, alcuni di loro stanno finendo l’università.

GRAZIE

Non posso vantarmi dicendo che tutto è successo con la mia forza.
Tutto è stato possibile perché la mano di Dio era sopra di me, lui che ci apre la via dove sembra impossibile ci sia una via.
Perché non solo il genocidio ha portato molte persone alla morte. In seguito bisogna fare conto con la morte naturale come quella di mia sorella ma anche delle diverse altre persone a me vicine.

Ringrazio il Governo Rwandese attuale che, non solo ha fermato il Genocidio, ma ha garantito la pace e ha dato una possibilità all’educazione di tutti. Nel governo precedente non tutti avevano diritto alla scuola, solo ad una parte della popolazione era permesso.
Oggi il Governo è aperto a tutti, ha costruito diverse nuove scuole pubbliche, senza le quali non avrei potuto realizzare tutti i miei sogni. Ha stabilito il processo Gacaca, una corte popolare nella quale la giustizia è in mano alla popolazione locale e che si è occupata dei processi per i colpevoli del genocidio. I colpevoli si sono pentiti, hanno chiesto perdono e, come condanna, sono obbligati a svolgere lavori di pubblica utilità. Non sono in carcere, vivono nelle loro famiglie e sono ben inseriti nella vita Rwandese. Alcuni sono miei vicini di casa.
Tutto questo fa parte della politica di Unità e Riconciliazione e di programmi come “NDI UMUNYARWANDA” (Sono Rwandese) che invita ciascuno a sentirsi più Rwandese, dando importanza alla propria nazione e non all’etnia di appartenenza, che nasce ai tempi della colonizzazione.
Infine, ma dall’inizio, ringrazio Gabriella, non solo nelle salite mi ha preso la mano, ma nella tenebra mi ha sempre tenuto una luce per guidare il mio passo lungo tutti gli anni dopo il genocidio. Dal 1994 si impegna per il Rwanda con l’associazione Insieme per la Pace, aiuta bambini orfani, vedove, famiglie in piena povertà. Da anni si è molto impegnata a portare l’acqua potabile a diverse regioni del Rwanda. Non saprei contare quanti acquedotti abbia fatto, oggi sta facendo tanti pozzi nella Savana.
Personalmente ringrazio per quanto hai fatto per me: sei per me la mia luce di speranza, grazie a te tutti i passi del mio cammino erano sicuri.

DSCN0357

Kigali, 9 febbraio 2014