Carissimi,
proprio sabato scorso con degli amici abbiamo parlato tra l’altro anche del perdono ( per dono ), questa notte dal sito di Marco Cortesi e Mara Moschini ho condiviso su Facebook questa lettera che i due amici hanno ricevuto dal Ruanda, spero che vogliate leggerla e apprezzarla pure voi.
gabriella
Un bicchiere di latte caldo
GIUGNO 23, 2015 / Diario di Viaggio
Qualche giorno fa mi giunge una mail. Scorro velocemente il testo. I miei occhi si fermano all’ultima riga. “Non lasciare che questa storia cada nell’oblio”. Torno all’inizio della lettera e leggo con cura. Termino la lettura con i brividi lungo la schiena e gli occhi lucidi. Di seguito trovate la storia di Delphine. In mezzo all’intolleranza, alla violenza e al razzismo dilagante, le sue parole sono più forti di uno schiaffo e più dolci di un bicchiere di latte.
Cara Delphine, non lasceremo cadere la tua storia nell’oblio.
Con affetto Marco & Mara
Mi chiamo Delphine e sono una donna tutsi. Nel 1962 ero a capo del reparto di pediatria neonatale dell’Ospedale di Butare. Ho fatto nascere moltissimi bimbi hutu e tutsi. In quell’anno mi opposi ai provvedimenti razziali che prevedevano che a differenza delle mamme hutu che potevano restare in ospedale fino a 3 giorni dopo il parto, quelle tutsi dovessero lasciare la pediatria appena il bimbo nasceva, lo stesso giorno. Non era giusto.
Per questo sono stata in prigione per 7 giorni e quando sono uscita ero stata licenziata. Per sfamare i miei 7 figli io e mio marito abbiamo aperto una farmacia. Nel 1972 sono stata rinchiusa in carcere un mese intero per aver protestato contro il regime e uscita dal carcere la mia licenza di farmacista era stata revocata. Non mi sono arresa e ho cominciato a vendere latte, latte appena munto – noi lo chiamiamo “amata inshushu”. Era l’unica cosa che potevo fare. Ho vissuto un’intera vita opponendomi all’ingiustizia, alla barbarie del razzismo. E ho sempre pagato per questo.
Nel 1994 durante il genocidio il mio nome è stato iscritto nelle liste di chi doveva essere ucciso per primo.
Il 20 aprile 1994 mentre i massacri esplodevano in tutte le città, ho implorato mia figlia di scappare in Burundi con il suo bimbo appena nato. Lei ha accettato il mio consiglio. Mi ha lasciato il piccolo Matajo – questo il nome del bambino – ed è corsa a casa per raccogliere le poche cose necessaria per il viaggio. Poche ore dopo gli interahamwe, gli estremisti Hutu, sono entrati nella mia latteria. «Abbiamo ucciso tua figlia» mi hanno detto. Ho sentito le gambe cedermi di botto. «Abbiamo ammazzato lei, le altre tue figlie e le loro famiglie. Ora tocca a te» hanno aggiunto. Con il machete in mano si sono fatti avanti pronti a uccidere me e il piccolo. Io stringevo Matajo al petto. «Aspettate!» dice uno di loro, «Ammazzarla sarebbe come farle un regalo! Lasciamo che soffra per aver perso tutto quello che ha!». Ridendo se ne sono andati.
Non ho mai più rivisto alcun membro della mia famiglia.
Oggi sono qui, sola con il mio Matajo, che ha 20 anni e a ottobre comincerà l’Università. 20 anni sono passati da quell’aprile. Gli assassini hanno scontato la loro pena e la mattina si siedono a uno dei miei tavoli e ordinano un bicchiere di “amata inshushu” – latte appena munto, pagano 500 franchi e se ne vanno.
Questa è la giustizia dell’uomo; hanno pagato per il loro crimine, ma io non ho riavuto i miei cari. Sai, è come morire piano piano, ad ogni bicchiere di latte caldo. Ma nonostante tutto, ogni volta che servo loro un bicchiere di latte, in cuor mio li perdono. Silenziosamente, dentro il mio cuore, li perdono e li raccomando a Dio. Lo devo ai miei carnefici, ma soprattutto al mio Matajo, perché il mondo per il quale ho combattuto è un mondo diverso da questo. Un mondo migliore.
Ti ho parlato della mia storia, caro Marco, perché credo che ogni Donna e ogni Uomo abbiano ricevuto il dono della vita per trasformare questo mondo in qualcosa che desiderano e di diventare ciò che Dio ha voluto per loro.
Se non perdonassi, il mondo che voglio morirebbe con me come un bicchiere di latte versato a terra. Se non perdonassi, la mia vita non sarebbe un dono, ma solo un’esistenza di dolore e miseria. Io sono nata per Amare.”