Il 28 agosto 1912 nasce negli Stati Uniti Rosamond Halsey Carr.
Ecco il mio ricordo di lei.
Febbraio 2002. L‘ultima volta che sono stata da lei, come sempre ero contenta ma anche un sentimento d‘angoscia misto a trepidazione era dentro di me.
La gioia di incontrare Roz è tanta, come mai quest‘inquietudine?
È quasi l‘alba. Un‘alba africana di suoni a noi strani, di gru coronate dalle stridule voci, di cieli stellati con costellazioni per noi rovesciate, di ho preso tutto? Acqua per il viaggio, qualche banana per improvvisi attacchi di fame, i gomitoli di lana per l‘orfanotrofio, i pesciolini secchi, il pane, le uova…“
Perché dire Roz, così preferisce essere chiamata, ora è leggenda, vuol dire bambini tra i più sofferenti, orfani scampati alla guerra e al genocidio, figli di genitori massacrati, figli di gente divorata dall‘AIDS, bimbi senza nome, bimbi senza età.
E‘ per questi bambini che ho conosciuto Roz e ho iniziato ad amarla.
Rosamond Halsey, disegnatrice di moda, arriva in Africa su una nave cargo nel 1949 per seguire suo marito Kenneth Carr, un esploratore e cacciatore ancora dei tempi passati, di caschi e vestiti color cachi.
Nel 1941 ho conosciuto mio marito, finalmente un uomo diverso da quelli che frequentavo normalmente, diverso da quelli che volevano essere avvocati o agenti di cambio. Kenneth era un avventuriero, più anziano di me. Aveva vissuto venticinque anni in Africa. Ero così eccitata e felice e nel 1942 ci siamo sposati. Abbiamo vissuto in Carolina del Nord dove abbiamo acquistato una casa. Il matrimonio mi ha molto deluso, sapevo che era un uomo diverso dagli altri, ma non lo immaginavo così, troppo diverso.
Finalmente abbiamo deciso di andare in Africa. Credevo fosse una buona idea, speravo che essere in un paese che lui amava tanto, fosse un‘occasione per noi di riavvicinarci. Roz e Kenneth nel 1949 partono per l‘Africa, un viaggio molto avventuroso. Traversano l‘oceano su una nave cargo e prendono vecchie piroghe per risalire fiumi alla ricerca di luoghi lontani, di pietre preziose e d’animali feroci.
Ma il viaggio e il clima caldo fanno nascere dei dubbi a Roz.
Mi domandavo perché avevo lasciato gli Stati Uniti per un Paese a me sconosciuto, un luogo strano e terrificante dove sentivo di non aver il diritto di esserci.
Sull’imbarcazione che ci portava per risalire i duemila chilometri del fiume Congo, in terza classe c‘era la vita, ma noi eravamo “privilegiati“, viaggiavamo in prima.
La notte sentivo cantare, danzare, ridere. La notte la sotto facevano l‘amore, abbracciavano i loro bambini…Di giorno vedevo sulla riva del fiume la gente. Viveva nel proprio paese e sapeva come viverci… Sarò capace di fare altrettanto?
Dopo un viaggio interminabile Roz e Kenneth arrivano nella regione del lago Kivu, in Africa Centrale. Paesaggi splendidi, clima gradevole, aria pura d’alte montagne e dove il paesaggio sembra un giardino coltivato fino all‘inverosimile con banani, campi di fagioli e di patate mescolati a varietà infinite di fiori tropicali.
Il grande amore, la passione e la solidarietà tra Roz e Kenneth si affievoliscono sempre più. Roz ha voglia di maternità, vuole partorire figli in terra africana, figli da lasciar giocare sulla polvere rossa, figli da crescere coi bimbi ruandesi.
Kenneth non vuole responsabilità, la libertà è il suo credo.
Un amico offre loro un lavoro e una casa in una piantagione di piretro, un antiparassitario della famiglia dei crisantemi, non nocivo per l‘uomo. La casa sembra un cottage inglese ed è situata a 2400 metri d‘altezza in un luogo incantato con alberi secolari su cui nidificano enormi uccelli e ai quei tempi con ancora animali feroci ed elefanti.
Terra fertile, vulcanica, dove vivono i pochi esemplari di gorilla di montagna sopravvissuti all‘arroganza dell‘uomo.
Roz diventa amica intima di Diane Fossey, l‘etnologa uccisa in Ruanda mentre studiava e tentava di salvare i gorilla da collezionisti senza scrupoli, avidi di mani e di teschi di questi primati così simili a noi, da esporre sulle loro scrivanie.
E‘ grazie a Diane, alla sua determinazione e al suo sacrificio se ancora i gorilla non sono del tutto scomparsi.
Nel film“Gorilla nella nebbia “Roz è interpretata dall‘attrice Julie Harris. La loro amicizia dura ancora oggi e ogni anno Julie non dimentica l‘orfanotrofio di Roz, che vive anche grazie alla sua generosità.
Roz impara a diventare commerciante e a guidare un camion per portare lei stessa il piretro essiccato a Ruhengeri, da dove sarà poi esportato nel resto del mondo.
Kenneth è sempre più assente, le sue avventure lo allontanano sempre più, il loro amore si affievolisce. Roz chiede il divorzio e nel 1956 è di nuovo una donna sola, libera, amata e coccolata da tutti i numerosi bianchi che vivono nella regione, gente di diverse nazionalità chiamati nel cuore dell‘Africa dalla bellezza del luogo e dalla qualità del suo clima. La dolcezza del Ruanda e la cordialità della sua gente l‘hanno ormai affascinata e incantata. Decide di acquistare la gran parcella della piantagione e la casa tra i vulcani e inizia una coltivazione di fiori che le garantisce, insieme al commercio del piretro, la sopravvivenza. Apre un‘infermeria per i suoi coltivatori e una scuola per i loro figli.
La sua casa si riempie di biberon e diventa un‘oasi preziosa per i cuccioli d’animali che si perdono nella zona o che rimangono orfani, conosce da vicino i gorilla e gli elefanti calpestano il suo giardino.
Siamo sulla strada che porta da Roz, a Giseny dove è sfollata dal 1996.
Kigali – Ruhengeri – Gisenyi, solo 180 chilometri ma parecchie ore per percorrerli. Strada per me maledetta, ricordi dolorosi ed ecco che il senso d‘angoscia e l‘inquietudine riaffiorano, ma è solo il ricordo. La prima volta che ho percorso questa strada era ricoperta di cadaveri e aveva odore di morti, era la fine di maggio 1994. Nel luglio dello stesso anno la seconda volta, con centinaia di migliaia di profughi che rientravano nella loro patria, a piedi nudi, parecchi di loro col colera addosso oltre ai bébé legati sulla schiena, i più piccolini avvolti in stracci, i più grandicelli seccati dalla sete, stremati dalla fame. Adulti con negli occhi e nel cuore il ricordo dell‘impietoso macete, gente che tentava di rientrare a Kigali da dove era fuggita la primavera del terrore e dei massacri. Parecchi tra loro non sono sopravvissuti, i loro corpi putrefatti e rinsecchiti dal colera giacevano sulla strada e nessuno si poteva fermare. Fermarsi voleva dire fare la stessa fine: morire.
Ricordo uno straccio e un movimento. Fermate, qualcosa si muove. Era un bimbo abbracciato alla mamma morta, succhiava al suo seno avvizzito, ormai vuoto.
Un altro viaggio su questa strada nel 1996 (guerra in Congo) l‘automobile su cui viaggiavo con Mariapia e con al seguito dei militari, che ci facevano da scorta, su un furgoncino carico di bambini persi dai genitori nel pigia – pigia generato dal fuggire dai campi profughi di Goma, nel Congo. Stiamo portando questo carico umano lontano dalla guerra. Li riportiamo in patria, un viaggio notturno di pioggia, di nebbia e di freddo. Bimbi sconvolti e intimoriti coi quali non riusciamo a comunicare e ci era difficile spiegare loro che questo è il viaggio della salvezza e della speranza…
Per fortuna non ogni volta che percorro questo inquietante tragitto sono confrontata a tragedie. La strada è splendida e asfaltata, con relativamente poche buche per essere un tragitto africano, si affiancano ruscelli, cascate e soprattutto ci si avvicina a loro, i possenti vulcani con la loro grande anima e i loro inquietanti segreti, montagne maestose e a tratti impenetrabili.
E‘ un saliscendi di colline e di montagne con paesaggi bellissimi, verdeggianti. La strada a tratti è molto ripida, sale fino a 2425 metri.
Più ci si avvicina ai vulcani più la natura è rigogliosa e lussureggiante e i campi coltivati arrivano fino ad alte quote. Le mucche locali, dalle corna lunghissime, qui sono robuste, quasi grasse. Penso con un senso di tristezza a quelle magrissime dagli occhi sporgenti, incontrate spesso nella savana, ad un centinaio di chilometri da qui.
La gente che incontriamo ai lati della strada è tantissima e indaffaratissima, ha cesti colmi di tutto sulla testa e cammina, cammina… E‘ nella tradizione del popolo ruandese il camminare, meglio ancora se con una mucca davanti…
Ancora un‘ultima montagna ed ecco il lago Kivu con Gisenyi. Stiamo arrivando da Roz, dove è sfollata temporaneamente perché a Mugongo, alla sua piantagione, ci sono ancora dei rifugiati Tutsi del Masisi e contro di loro ancora sporadici massacri e la notte lassù è pericoloso e Roz, da alcuni anni, non è autorizzata a viverci.
Anche il suo orfanotrofio “Imbabasi“, che significa amore materno, è ora spostato a Gisenyi, anche alcuni dei suoi 104 bambini sono in pericolo, è come se questi essere umani non avessero il diritto di vivere. Questo comporta un onere in più per Roz, oltre ai bimbi da sfamare, mandare a scuola, da vestire e curare, qui c‘è anche l‘affitto da pagare.
Apro il cancello. Il primo è sempre Fred, il cagnolino di Roz, sopravvissuto ai massacri, nutrito con gabbiani dal gatto siamese di quando lei, contro la sua volontà, è stata rimpatriata negli Stati Uniti durante il genocidio. Mi riconosce, mi corre incontro e abbaia gioioso.
La porta di casa si apre e Roz appare in tutta la sua apparente fragilità.
Esile, affascinante, elegante. Da lei traspira forza, lucidità, saggezza. Il suo sorriso penetra nel profondo del mio cuore, la sua dolcezza mi invade.
E‘ lei, Rosamond Halsey Carr, testimone del declino e della caduta del colonialismo in Africa, sopravvissuta a guerre civili, a diverse rivoluzioni e ad una delle più grandi tragedie dal secolo scorso, l‘impietoso genocidio del Ruanda. Un milione di morti in tre mesi e centinaia di migliaia di orfani. Alcuni tra questi sono diventati i suoi bambini.
Ho sempre desiderato dei figli….Ora ne ho tanti, la vita è stata generosa con me. Non potrò mai più abbandonare il Ruanda: è diventato la mia patria, la sua bellezza è il mio canto, le sue lotte sono diventate le mie, il suo dolore è la mia più profonda tristezza, il suo popolo è la mia forza e i suoi bambini sono la mia più grande gioia.
Roz ha pubblicato nel 2001 il suo primo libro La mia vita in Rwanda, il Paese delle Mille Colline che in America è diventato un best – seller, e già stato tradotto in tedesco e in francese. Attualmente sta lavorando al suo secondo libro e spera di avere abbastanza salute e forza per portarlo a termine.
Ha pure creato una fondazione e mi fa piacere essere nel suo comitato. La sua opera deve continuare, i suoi bambini devono essere protetti, hanno il diritto di continuare a vivere con dignità. La fondazione è il frutto della determinazione di una donna sola che all’età di ottantadue anni, al suo rientro in Ruanda nell‘agosto del 1994 dopo gli avvenimenti terribili che lo hanno sconvolto, ha avuto il coraggio e la forza per accogliere bambini…La prima è Ishimwe uscita dalla foresta coi piedi sfasciati e un fagottino sulle spalle, la sua sorellina al limite della sopravvivenza. Ha camminato una settimana per scappare dalla furia assassina del macete, ha assistito al massacro dei genitori. Poi un‘altro e un’altra ancora, ed è nato un orfanotrofio con niente, assolutamente niente. Al suo rientro tutto il suo precedente lavoro era distrutto, la sua casa saccheggiata, il suo conto in banca svuotato…ma l‘amore per l‘Africa e la tanta fiducia nel cuore hanno fatto di lei una leggenda, la leggenda del Ruanda.