“Da fratello a fratello, dal mio cuore al tuo cuore, se la pelle è diversa non facciamo l’errore di parlare di razze come con gli animali, di pensare sbagliando di non essere uguali, bianco e nero è più bello, da fratello a fratello!”
Le parole e la melodia di questa canzone sono ferme lì, costantemente nella mia testa, da quel ventisei agosto, giorno in cui è terminata la più bella e significante, credo, esperienza della mia vita. Dopo averla sognata per anni, finalmente quest’estate sono riuscita a respirare quella famosa aria ruandese ed è stato meraviglioso, dal primo all’ultimo secondo.
Durante il nostro soggiorno laggiù, io e mia mamma, siamo state un po’ a Remera, quartiere della capitale Kigali, e un po’ a casa di Costance nel villaggio di Rutongo. Inoltre abbiamo girato per il paese: siamo state al parco nazionale dell’Akagera, sul confine con la Tanzania, dove abbiamo visto giraffe, zebre, ippopotami ed elefanti; a Gyseni, paesino sul lago Kivu al confine con il Congo e nella cittadina universitaria di Butare. Ho potuto vedere diversi tipi di ambienti anche se alla fine, dovunque tu sia, se ti guardi attorno le uniche cose che vedi sono colline di un verde sgargiante, coltivate fino alla cima, che contrastano con la terra rossastra di case e strade. Ci sono piantagioni di tè, caffè o banane ovunque.
Oltre al paesaggio spettacolare del “paese delle mille colline”, la cosa che mi ha colpita di più fin da subito è stata la gente. Non qualcosa in particolare della gente, la gente e basta.
I loro volti sorridenti anche se vivono nella miseria, il loro modo di urlare “umuzungu, umuzungu!” (“uomo bianco, uomo bianco!”) quando ti vedono passare, la loro gioia quando da lontano gli fai un gesto di saluto con la tua mano bianca, il loro essere stupiti quando, dopo averla pizzicata, si accorgono che la tua pelle pallida e fragile non si rompe, la loro tranquillità e pazienza, il loro modo di proteggerti, il rispetto che portano per te.
Penso di aver sorriso più volte in tre settimane di Africa che in 15 anni di vita.
Ho amato dare la mano ai bambini mentre tornavano da scuola o quando avevano il bidone pieno d’acqua sulla testa, ho amato salutare gli anziani fuori dall’associazione a Rutongo, ho amato rincorrere Prince (quel bambino tanto bello e divertente che si mette le infradito grandi tre volte il suo piede al contrario) a Remera e giocare con lui, ho amato quando le ragazze toccavano i miei lunghi capelli arancioni o quando i ragazzi mi chiedevano di poter essere i miei fratelli neri.
Ma viaggiare, viaggiare veramente, significa conoscere un paese, nel bene e nel male.
Ho visto persone ai lati delle strade, ferme, sperando che qualcuno da lassù mandasse un po’ di fortuna, ho visto feriti di guerra con ancora il volto impaurito, paura che non se ne andrà mai via. Ho visto bambini piangere per la malnutrizione, non erano lacrime da capricci, erano lacrime vere, lacrime piene di dolore e sofferenza. Non come i nostri bambini bianchi, che piangono perché l’altalena su cui vogliono andare non è libera o perché, prima di poter mangiare il salame e il prosciutto, la mamma li obbliga a mangiare due cucchiaini di minestra. I miei figli cresceranno come i bambini africani, e sono sicura che diventeranno persone tre volte migliori di noi ticinesi, me compresa.
Sono queste le immagini che ti segnano e insegnano più di tutte. Infondo, quella gente, cosa ha fatto per meritarsi tutto ciò? Nulla. E noi, noi cosa abbiamo fatto per meritarci tutto ciò che abbiamo? Nulla. Siamo tutti uguali, anche se il colore della nostra pelle è diverso. L’anima non ha un colore. L’amicizia non ha un colore. L’amore non ha un colore.
Promettetemi e soprattutto promettete a voi stessi che da adesso, ogni giorno, penserete almeno un momento a quelle facce scure ma sorridenti che, malgrado tutto, sono felici, forse più di noi. Bianco e nero è più bello, ve lo assicuro.
Sara